17/04/2020 01:30 PM
Pillole di Diritto

Non configura reato coltivare piante di marijuana se il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile appare destinato in via esclusiva all’uso personale del coltivatore.

Non configura reato coltivare piante di marijuana se il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile appare destinato in via esclusiva all’uso personale del coltivatore.
Non configura reato coltivare piante di marijuana se il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile appare destinato in via esclusiva all’uso personale del coltivatore.


Corte di Cassazione, Sez. Un. Pen., 16 aprile 2020, n. 12348.

La Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, con specifico riferimento al reato di coltivazione non autorizzata di sostanze stupefacenti p. e p. all'art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, dopo avere evidenziato l'esistenza di contrasti interpretativi nella giurisprudenza di legittimità  in relazione alla nozione giuridica “coltivazione”, ha sollecitato le Sezioni Unite ad un intervento di nomofilachia.

In particolare, nell'ordinanza interlocutoria si rileva che, secondo un primo indirizzo, ai fini della configurabilità del reato de quo, non è sufficiente la mera coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, abbia raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma è, altresì, necessario verificare se tale attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga, alimentandone il mercato (ex multis, cfr. Sez. 3, n. 36037 del 22/02/2017; Sez. 6, n. 8058 del 17/02/2016; n. 33835 del 08/04/2014).

Secondo un diverso orientamento, invece, l'illiceità della condotta consiste nella idoneità a produrre la sostanza per il consumo, ossia la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente, sicchè non rileva il quantitativo di principio attivo ricavabile nell'immediatezza (ex plurimis, cfr. Sez. 6, n. 35654 del 28/04/2017; n. 52547 del 22/11/2016; n. 25057 del 10/05/2016).

Orbene, le Sezioni Unite, richiamandosi all'evoluzione della giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia di coltivazione di piante stupefacenti, evidenziano, anzitutto, la mancanza di una netta linea di discrimine fra le pronunce che fanno riferimento alla potenziale idoneità della coltivazione ad “incrementare il mercato” degli stupefacenti e quelle che non vi fanno riferimento, le quali giungono, in alcuni casi, ad esiti pratici sovrapponibili. Ciò è dovuto all'oggettiva ambiguità dello stesso concetto di “incremento del mercato”, sia per la sua intrinseca vaghezza, sia per le difficoltà di accertamento - legate ad una sostanziale impossibilità di avere a disposizione dati certi e verificabili - e per la quale è auspicabile la definizione di paradigmi ben definiti che possano valere in relazione alla “coltivazione domestica” di entità oggettivamente modesta.

Così delineato l'oggetto della questione, viene richiamata, poi, la distinzione tra le categorie della tipicità e dell'offensività del reato e, nell'ambito di quest'ultima, tra offensività in astratto ed offensività in concreto.

Sul piano della tipicità, intesa come riconducibilità della fattispecie concreta al “tipo” disciplinato dalla fattispecie astratta, perché vi sia una coltivazione penalmente rilevante è necessario, non solo che la stessa abbia per oggetto una pianta idonea a produrre sostanze vietate, ma anche che vengano utilizzate, a tal fine, strumentazioni e pratiche agricole tecnicamente adeguate.

Sul piano dell'offensività della condotta ed al fine precipuo di individuare l'oggetto giuridico della tutela, le Sezioni Unite ritengono sufficiente riferirsi al bene della salute, individuale e collettiva, in quanto la particolare pregnanza di tale valore costituzionale consente che la sua tutela sia anticipata ad un momento precedente a quello dell'effettiva lesione, precisando, nondimeno, che la ricostruzione di tale fattispecie di reato in termini di pericolo presunto, trova adeguato temperamento nella valorizzazione del concetto di “offensività in concreto”, in base al quale è compito del giudice verificare se il fatto abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene-interesse tutelato e quindi ex post se la coltivazione abbia effettivamente prodotto una sostanza inidonea a generare un effetto stupefacente, in concreto rilevabile.

Così, nelle ipotesi di ciclo completo di produzione, l'accertamento dovrà avere ad oggetto l'esistenza di una quantità di principio attivo tale da produrre effetto drogante, laddove, con riferimento alle fasi pregresse, non è possibile ritenere che si tratti di attività sostanzialmente libera fino a quando non si abbia la certezza dell'effettivo sviluppo del principio attivo. In particolare, potranno rilevare, non solo una inadeguata modalità di coltivazione - da cui possa evincersi che la pianta non sarà in grado di realizzare il prodotto finale - ma anche un eventuale risultato finale che non consenta di ritenere il raccolto conforme al normale tipo botanico, anche in considerazione di una quantità di principio attivo troppo bassa per generare il tipico effetto drogante.

Pertanto, ai fini della configurabilità del reato in parola, è necessario accertare la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre un effettivo quantitativo di sostanza stupefacente, dovendo intendersi per coltivazione, peraltro, l'attività svolta dall'agente in ogni fase dello sviluppo della pianta, dalla semina fino al raccolto.

In conclusione, secondo il Supremo Consesso, la semplice attività di coltivazione domestica di piante di marijuana non integra di per sé la fattispecie di reato delineata dal legislatore.

Avv. Sergio Culotta

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